Ecofemminismo: Stefania Barca per Georgika

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IL LAVORO DI CURA/2: ecofemminismo e Global Women’s Strike

20 giugno 2022

 

Il secondo incontro sul lavoro di cura del gruppo ecofemminista rurale “Georgika” ha visto la partecipazione di parte delle donne intervenute la prima volta e la fortunata presenza di Stefania Barca, docente di Ecologia Politica Femminista all’Universidade di Santiago de Compostela.

Nell’arco temporale delle nuove presentazioni e del recap su quanto ci siamo dette la volta precedente, sono emersi alcuni punti importanti. Chi ha avuto esperienze di femminismo organizzato tempo addietro o lo ha vissuto attraverso gli incontri delle madri e delle nonne, ha sottolineato quanto i diritti che si pensavano acquisiti debbano essere, invece, difesi ogni giorno. L’errore della generazione precedente è stato quello di darli per scontati. Ancora una volta, inoltre, registriamo una grande voglia di cultura e di emancipazione soprattutto da parte di chi non ha potuto disporne in gioventù.

Pur ritenendo sicuramente fondamentale l’estensione dei principi dell’ecofemminismo a tutti i generi (non solo a quello maschile), il gruppo Georgika pensa che sia fondamentale dapprima acquisire una ferrata consapevolezza personale sul gap di genere e sul patriarcato attraverso pratiche di autoformazione e di autocoscienza. Il racconto del vissuto di tutte le partecipanti ha messo in luce come, per livelli diversi, il patriarcato sia stato interiorizzato a tal punto da indirizzare in maniera inconsapevole le nostre scelte quotidiane, soprattutto in relazione ai nostri figli o ai nostri fratelli.

Quindi, abbiamo continuato a parlare di lavoro di cura nell’ottica dell’ecofemminismo approfittando della presenza di Stefania Barca perché la parola femminismo provoca sempre diffidenza, una diffidenza che dev’essere spiegata e decostruita.

Sintesi dell’intervento di Stefania Barca

I ruoli di genere non hanno a che fare con i nostri corpi, cioè con la nascita in quanto uomini e donne, ma con l’educazione. Io stessa, sia per il mio vissuto personale nella famiglia di origine e per le vicissitudini di tipo professionale in relazione anche alla carriera di mio marito, sono stata penalizzata dalla cultura patriarcale. Il femminismo dice, infatti, che non è la natura che ci ha fatto donne, ma è la società che ci reso tali. La società in cui le relazioni familiari sono incardinate è più grande di noi e noi ne saremo sempre condizionate: le nostre scelte non saranno mai totalmente libere. La mia vita racconta che, trasferita in America, ho potuto vivere molto più liberamente le mie decisioni e non certo perché l’America possa dirsi femminista (al contrario), ma perché lontana da casa e in assenza di relazioni strutturate mi sono sentita autonoma e senza condizionamenti. La storia delle migrazioni ci dice, infatti, che si migra anche per liberarsi da contesti culturali di partenza troppo soffocanti.

C’è stata un’epoca storica, molto antica, in cui vigeva il matriarcato, ravvisabile più attraverso reperti che tramite fonti scritte, epoca poi scalzata dalla nascita dello stato che richiedeva il patriarcato, la guerra, l’uso della forza e delle gerarchie per poter esercitare il proprio potere. Non c’è nulla di naturale in quello che viviamo oggi, essere donne non è di per sé una condizione inferiorizzante e questa presa di coscienza è arrivata solo con il femminismo come, con i movimenti femministi, è arrivata la presa di parola: noi abbiamo la capacità di riflettere a lungo, la tendenza a non essere aggressive, a essere rispettose, a non parlare troppo e questo tipo di educazione ci rende difficile prendere parola nei contesti più diversi fino ad esprimere grande timidezza, a dover lavorare il doppio per essere accettate e a entrare in relazione abusive con gli uomini. I maschi invece subiscono altri condizionamenti: devono essere aggressivi, marcare il territorio, occupare uno spazio, parlare per vincere.

Il femminismo è principalmente (ma di certo non solo) un’affermazione della parità di genere che non vuol dire uguaglianza, ma rispetto e riconoscimento delle differenze. Ha avuto diverse fasi e oggi si sta riscoprendo e rinvigorendo di fronte al dato di fatto che c’è una donna morta ogni tre giorni e che non può essere un caso. Anche per me, in età liceale, le femministe erano le esaltate di turno che dicevano cose incomprensibili, ma il femminismo è stato molto diverso a seconda del periodo storico.

Nel primo novecento, le suffragette nacquero e si attivarono perché le donne votassero in un’epoca in cui le non avevano diritto di proprietà (erano solo proprietà altrui) e quindi nessuna capacità giuridica.

La seconda generazione (anni 60 e 70) ha lottato poi per il salario al lavoro domestico, riconoscendo che le donne si accollavano tutto il lavoro di cura e che, per questo, ne erano penalizzate. Il lavoro di cura ha, invece, la stessa dignità del lavoro di fabbrica o d’ufficio. In Italia Maria Rosa dalla Costa e Silvia Federici sono tra le principali fondatrici del movimento di lotta per il salario domestico, rivendicazione utile ad acquisire la consapevolezza che il lavoro di cura non è naturale, ma imposto dalla società.

Negli anni 70 una femminista francese, Francois d’Eaubonne, scrive un libro che si chiama “Femminismo o morte”: la distruzione degli ecosistemi è un effetto del patriarcato perché questo sistema si basa sull’emanazione della categoria del maschile, affermando che il pianeta sia progressivamente distrutto non dall’umanità, ma dal patriarcato.

L’ecofemminismo è di provenienza rurale perché nasce da chi paga di più il prezzo alto della distruzione degli ecosistemi. Viene quindi dalle donne del sud del mondo, delle aree contadine marginalizzate, come Vandana Shiva, Wangaari Mathai. L’ecofemminismo arriva in città solo quando arrivano i movimenti per la giustizia ambientale e le donne che si prendono cura dei figli si rendono conto che qualcosa non va nell’ambiente in cui vivono. Si rendono conto che il potere economico basato sul profitto sta in mano agli uomini e che a questo potere si deve la devastazione ambientale.

Il femminismo degli anni 90 e 2000 è più un femminismo di carriera, legato all’empowerment sui luoghi di lavoro. Non c’è assolutamente nulla di male nel voler fare carriera ed emergere dal punto di vista professionale, ma dobbiamo farlo in maniera diversa dagli uomini per mantenere il nostro modo di vivere e di essere, per non cadere nella trappola della competizione e dell’arrivismo. Non dobbiamo pensare di dover lavorare per essere all’altezza di qualcun altro perché è come ammettere che siamo, già in partenza, su un gradino più basso.

Come possiamo essere trasformative per le nostre vite e nella società? Quali sono le pratiche? Come lottare per i nostri diritti? Perché il femminismo ci insegna anche a lottare per i nostri diritti.

Queste sono le grandi domande alle quali intendiamo rispondere attraverso i nostri incontri e le nostre riflessioni.

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