Quali linguaggi, quali strade

le strade libere

La tragedia che stiamo vivendo in questi giorni di rinnovata offensiva bellica ha gettato tutti e tutte nell’incredulità. Eravamo abituati a guerre remote, ad orrori mediati dalla lontananza geografica e dalla politica della differenza razziale. Oggi che ad essere sotto le bombe è la vicina Ucraina, i nostri sentimenti di repulsione si fanno più vivi, mentre più palpabile diventa la riflessione interiore sulla pace. E’ così puro il nostro desiderio di pace, così adamantino e indiscutibile nei nostri cuori che ci sembra impossibile non possa essere condiviso dall’umanità intera. Eppure, non lo è. Non lo è soprattutto da parte dei leader mondiali per i quali muovere guerra è come muovere pedine, spargendo un sangue che non è mai il loro.

Sembra difficile trovare le parole per esprimere la confusione che c’è nei nostri cuori, tra ipotesi strategiche e tecnicismi del disarmo. Ciononostante, proprio adesso è fondamentale riprendere a ragionare senza fidelizzazioni di parte e senza tifoserie, inventando nuovi suoni e nuove armonie.

Verso LOTTO marzo e in piena invasione, le femministe russe pubblicano al 28 febbraio un appello in cui non condannano soltanto la politica di Putin, ma la guerra assurta a categoria politica. Il femminismo non è oppositivo in sé, ma di certo sa opporsi con fermezza ai conflitti, alle violenze, alle prevaricazioni: “La guerra intensifica le disuguaglianze di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale” (traduzione Jacobin Italia). Lo stupro come strategia militare, ancora oggi nel 2022, è una realtà ben definita, il linguaggio del dominio indiscusso sui nostri corpi e sull’interezza delle nostre vite.

Quali strade percorrere, allora, quali parole da adoperare non solo ora nell’afasia dell’incredulità e tra le gimcane della propaganda politica, ma davanti gli assetti geopolitici che cambiano nuovamente profilando un’idea di Europa e di mondo che farà ancora una volta della sopraffazione la sua modalità comunicativa?

Nettie Wiebe, esponente di spicco di La Via Campesina Canada, l’organizzazione internazionale che unisce circa 200 milioni di contadine e contadini, ha rilasciato in questi giorni un’intervista ad “Agroecology Now!” nella quale racconta estesamente di una pratica fortemente voluta dalle donne del movimento. Prima di aprire l’agenda politica delle riunioni, tutti e tutte si riuniscono in un tempo dedicato alla mistica, ossia alla spiritualità, mai intesa come religione. La mistica è diversa per cultura e provenienza geografica: ci sono danze del Bangalore, canti nel Canada o semi da condividere al centro del tavolo in altre regioni. Nettie, filosofa e contadina, dice che non a tutti possiamo approcciarci intellettualmente, ma che far sentire uomini e donne al sicuro, rendere possibile la loro affermazione come persone all’interno di un quadro spirituale è non solo una strategia di comunicazione interrazziale e interculturale, ma una necessità profonda delle donne in primis che, ancor prima di affrontare il tema del patriarcato, hanno riconosciuto il bisogno di sentirsi esseri umani.

Mentre scrivevo il mio contributo per il Global Women’s Strike, il movimento internazionale che si occupa di cura come lavoro domestico e non, mi sono ritrovata a definirmi una pianta produttiva e silenziosa alla quale, nel paesaggio che io stessa – da contadina – ho contribuito a far rifiorire, non si fa più caso. Per la legge italiana sono imprenditrice agricola, non una donna con un enorme carico emotivo e lavorativo misconosciuto: sono tuttalpiù destinataria di finanziamenti, non soggetto di diritti. Com’è possibile che proprio io che coltivo cibo buono, cibo in grado di riconnetterci con tutto ciò che è vivo, faccia fatica a guardare a me stessa come essere vivente e desiderante?

Sentirci esseri umani. Nella cultura occidentale, la razionalità è il tratto prevalente o, per dirla con Vandana Shiva, la binarietà riduzionista tra natura e cultura disegna il corpo come macchina alimentata dall’esterno, il cibo come massa ingegnerizzabile e l’anima come governo della separazione. Al contrario, una visione ecologica smantella “la camicia di forza del rapporto causa-effetto” (2018) e lascia spazio alla complessità delle interazioni. Vale a dire che la nostra cultura ci programma dividendoci dalla natura, tagliando in due ogni esperienza e relegandoci alla disconnessione dalla vita intesa come (bio)diversità di impulsi, stimoli e saperi.

Sulla scorta di questa spiegazione, si comprende meglio perché non è facile per noi occidentali sedere sulla nostra impazienza, come dice Nettie, e lasciarci andare. Non è facile coltivare la nostra emotività se ritenuta socialmente segno di debolezza, dare spazio a ciò che non è codificato dal nostro sistema economico, usare linguaggi che non siano quelli della ragione e della politica degli uomini. Le nostre pratiche non sempre riflettono le nostre esigenze più intime, adeguandosi a tempi, parole e modi che sono spesso l’eco del padrone. Non basta cambiare le desinenze, per quanto necessario sia il dibattito sul rapporto tra lingua e patriarcato. Se non riusciamo a raggiungere il centro emotivo di tutti e tutte coloro che subiscono le disuguaglianze culturali, se non puntiamo sulla semplicità espressiva utile a farsi corpo nella vita di ognuno, il nostro sarà sempre un lavoro a metà.

La terra usa un’altra lingua dall’alba dei tempi. E’ la lingua della pace interiore, dell’equilibrio, della ricomposizione nella differenza, parlata dalle erbe spontanee, dalle colture selezionate nei millenni o dalle danze tribali che accompagnano i raccolti, dagli usi e dai costumi che hanno fatto le società in tutte le culture contadine. Questa voce arriva sempre, al cuore di tutti, chiara e incontrovertibile. Nonostante le guerre siano sempre state ingaggiate per il possesso della terra e del potere che da quel possesso deriva, la terra – come il femminismo – non può che essere contro la guerra. E la guerra, per la lingua che parla, è fuor da ogni dubbio contro la terra.

Diamo ragione dunque, ancora una volta, alle donne sudamericane quando dicono che non può esistere agroecologia senza femminismo, ma soprattutto che non può esistere femminismo senza agroecologia e, nella trama che dobbiamo tessere per superare l’ulteriore dualismo tra città e campagne, occidentali e orientali che siano, dobbiamo provare a dare forma e corpo ad altri linguaggi che sappiano esprimere meglio tutte le sfumature del nostro universo culturale. Non è certo una coincidenza se “cultura” e “coltivare” hanno la stessa radice linguistica: dalla terra veniamo noi e ciò che ci contraddistingue come esseri umani.

Miliardi di stelle diverse, dunque. Ognuna brilla, ognuna illumina a prescindere dallo spazio siderale che abitano e dalla luce che emanano su questa terra capace di accoglierle tutte.

Miriam Corongiu

 

Grazie alle compagne della collettiva “Officina Femminista” di Orta di Atella che, nell’atto rivoluzionario di intitolare una piazza alla dimenticata Enrichetta di Lorenzo, eroina risorgimentale, hanno desiderato una volta di più dare spazio alla terra e al femminismo rurale al tempo della guerra degli altri.

 

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *