Vi promettiamo amore eterno

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Il lavoro di un contadino è un lavoro dimenticato. Nella sua essenza e nelle sue ragioni sembra appartenere ad un remoto passato in cui zolle dure e povertà si mescolano a panorami imbionditi dal grano o alla perduta sobrietà del cibo buono e necessario. Non è, però, esattamente così. Non è del tutto scomparsa la possibilità di tornare a star bene e di partire verso un mondo più vivibile per ogni fascia sociale.

Rinasce ogni giorno (e da tanto) un modo nuovo di relazionarsi alla terra che fa implodere dall’interno l’attuale modello agroindustriale e che segna il passo verso un’agricoltura giusta, innamorata della natura e ad essa dolcemente sottomessa. E’ un approccio scientifico, basato sull’osservazione e sullo studio dei sistemi contadini dei sud del mondo che per ere sono sopravvissuti ad ogni cambiamento garantendo sussistenza, e sul concetto che alla base del lavoro nella terra debba esserci il rispetto più sacro per ogni forma di vita nelle sue infinite differenze.

Si chiama agroecologia e mette radici profonde ogni giorno di più:

(In video: Coltivazione di pomodorino del “piennolo” in consociazione con girasoli e in sistema di agrosilvicoltura tra melograni e noci – L’Orto Conviviale, S.Anastasia nel napoletano)

Vandana Shiva[1], attivista internazionale nel campo della protezione della biodiversità, sottolinea come l’agricoltura convenzionale sia un’agricoltura di guerra: pesticidi e diserbanti – sostiene –  sono stati ottenuti attraverso una ridefinizione di laboratorio delle armi chimiche utilizzate nel secondo conflitto mondiale, lasciando intuire con questa affermazione che la premessa stessa dell’agroindustria sia la distruzione. Gli agrofarmaci aggrediscono infatti le colture causando danni enormi non solo al sistema suolo-pianta – la cui salute e vitalità sono alla base della fertilità dei terreni, della loro resilienza e della produttività delle colture stesse – ma rovinando la vita umana, interferendo con il nostro sistema immunitario e indebolendolo fino all’insorgenza di gravi malattie, spesso mortali.

Un’agricoltura che si articola in monocolture, disintegrando l’opulenza con cui la natura fa mostra di se attraverso infinite varietà, ha necessità di un massiccio controllo esterno e di tecniche profondamente lesive di tutto ciò che vive nel terreno. Dagli OGM alle NBT (New Breeding Tecniques) che puntano tutto sull’innovazione genetica creata a tavolino e non sull’evoluzione naturale della vita sul pianeta, possiamo evincere premesse culturali radicate esclusivamente nella selezione demiurgica di ciò che è utile al mercato, commerciabile, esportabile. Vince ciò che si produce in fretta, in grandi quantità e soprattutto a costi bassissimi. In virtù dei costi e soprattutto dei costi del lavoro, se ci soffermiamo a riflettere su come l’agroindustria sia incontestabilmente il volto del neocolonialismo nei paesi cosiddetti emergenti, il collegamento sinaptico a sfruttamento, schiavitù, povertà dilagante e migrazioni è immediato.

E se, non da ultimo, consideriamo l’impatto del modello convenzionale sui cambiamenti climatici stimato intorno al 30% delle emissioni globali, l’architettura di un’agricoltura inquinante, socialmente ingiusta e distruttiva può dirsi compiuta. La Shiva dice la verità: la nostra è agricoltura di guerra.

Come possiamo porre fine a questo scontro epocale con la natura? Da dove ripartire nella lotta alle ingiustizie, al caos climatico, alla cultura dalla sopraffazione? Esattamente da dove tutto è iniziato: dalla terra. L’agroecologia è una scienza che tiene presente criteri di efficienza nella produzione alimentare mettendo al centro la sostenibilità ecologica, sociale ed economica. Non può esserci cibo sicuro che non sia contemporaneamente cibo giusto, basato sul rispetto dei diritti umani, delle differenze di genere e degli equilibri naturali. Il nuovo paradigma è un sistema vivente in cui il benessere degli uomini e delle donne, così come di ogni altra forma di vita al mondo, diventa il fulcro concettuale da inverare, ogni giorno, nelle corrette pratiche agricole così come nell’eticità del lavoro.

Si può fare? L’esperienza ci dice di si. Molti studi ormai confermano che la resa delle coltivazioni agroecologiche garantisce la sostenibilità aziendale e quella familiare come e più di quelle convenzionali[2] producendo più cibo con meno terra, utilizzando meno energia e meno acqua, migliorando le risorse naturali di base e abbassando le emissioni di gas serra. La produttività misurata in salute e nutrizione risulta incomparabile, come lo sono le conseguenze culturali di questo modello che non sa lasciare indietro nessuno.

Praticare la rigenerazione nella scelta delle tecniche di coltivazione non è un suggerimento romantico: è, al contrario, l’esercizio necessario per il salto verso la compassione e la restituzione. Chi traduce gli studi agroecologici nel proprio contesto aziendale non potrà, in nessun caso, riservare trattamenti disumani ai lavoratori e alle lavoratrici della terra perché li considererà, finalmente, come elementi integranti di quel mondo-natura che reclama venerazione, più che rispetto.

Iamme, liberi di scegliereNelle aziende come la mia, in cui la biodiversità è un imperativo categorico, i braccianti sono parte della nostra vita e si da loro il giusto contratto, la giusta retribuzione, il giusto trattamento ponendo al vertice delle nostre azioni la solidarietà verso ragazzi e ragazze afflitti dalla povertà e dall’ingiustizia. Parimenti, chi parte da una progettualità di lotta al caporalato e alle disuguaglianze generate dalle agromafie, non potrà esimersi dall’adottare una visione del mondo diversa da quella agroecologica. E’ il caso di Iamme, il tentativo da poco messo in essere tra il materano e il foggiano da Rete per la terra, dal Movimento No Cap e da Altragricoltura basato sull’agricoltura bio: non solo filiera, comunità, aziende e braccianti uniti dall’esigenza di ridare visibilità agli ultimi e umanità alle prime, ma la terra al centro di un’alleanza che – partendo dalle donne, 50 donne contro il caporalato – parla di libertà e di liberazione.

sottopadrone_copertina-exe-1“Il made in Italy non esiste fuori da questa alleanza”, scrive il sociologo e attivista Marco Omizzolo[3]. “Non riguarda solo il prodotto o il processo. È la sintesi e la prospettiva di un modello di Paese che si esprime dentro un’artigianalità modernizzante che custodisce e nel frattempo sviluppa, nel settore primario e non solo, il proprio tradizionale saper fare, portando tutto al futuro. Dentro questa proposta il caporalato, la ghettizzazione, l’emarginazione, e dunque le agromafie, non possono trovare posto”.

In Terra dei Fuochi siamo ripartiti proprio laddove lo scempio si era compiuto, dalle campagne affogate tra i rifiuti dove i roghi appestano le nostre vite e le nostre terre, convinti che ripristinando quel rapporto d’amore con la natura bruscamente interrotto dall’economia del capitale, si possa tornare a sognare. Abbiamo maturato la certezza che le ecomafie possano essere svuotate non tanto e non solo da politiche repressive o adeguate programmazioni normative, quanto dal movimento culturale di progressiva sottrazione del terreno sulle quali le mafie prosperano: povertà, lavoro nero, omertà.

Noi contadini agroecologici sappiamo che tornare a essere protagonisti del nostro futuro coltivando nel giusto modo significa infliggere un duro colpo all’economia suicida che alimenta di sé il caporalato e il complesso sistema agromafioso fatto di colletti bianchi, professionisti, industriali del settore agroalimentare e esperti della distribuzione, una struttura questa pericolosamente simile alla piovra ecomafiosa.

L’agricoltura ha tutto in comune con la vita e nulla con il profitto, con il bene comune e non con la proprietà privata, con la generosità e non con lo sfruttamento, con ciò che è soave, profondo e lento, molto più che con l’automazione e il latifondismo. Riducendo la scala a redistribuendo le terre, ritornando al sapere contadino e ad un’agricoltura mani nella terra si potrebbe ottenere equità, sicurezza, sovranità alimentare e, nell’ottica ecologista, giustizia ambientale, sociale, climatica.

Tornando piccoli, stavolta, diventeremmo grandi. E noi contadini ci stiamo lavorando. Quei campi d’oro che sembravano appartenere ad un romanzo di fine ottocento si vedono ormai all’orizzonte e con loro un cibo equo, diritto di tutti. Di zolle dure da vincere ne abbiamo avute tante sotto i piedi e ogni volta siamo stati in grado di portare la fertilità nei campi che abbiamo lavorato, sicuri di essere tanto più necessari adesso di un tempo.

Il mondo si sta ricontadinizzando, lo dicono 22 milioni di nuovi “terroni” in tutto il globo. Cari uomini affezionati al potere, siamo già davanti a voi.

E vi promettiamo amore eterno.

Miriam Corongiu

 

[1] “Agroecologia e crisi climatica”, Terra Nuova Edizioni, 2019

[2] “Agroecologia. Una via percorribile per un paese in crisi”, di Altieri, Nicholls, Ponti – Edagricole, 2015

[3] “Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana”, Milano, 2019

 

Immagine in evidenza: Iamme, liberi di scegliere/Facebook

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